Se è vero che investire nel placement, inteso sia come individuazione di un testimonial che come semplice endorsement, è un’azione sempre più strategica per un’azienda, è senz’altro altrettanto vero che si tratta di una scelta importante e comunque rischiosa, considerando la totale identificazione tra marchio e personaggio e il conseguente trasferimento reciproco di “valori” dall’uno all’altra. Non è facile per un’azienda muoversi nel caotico mondo del placement, diviso tra la scelta di testimonial che rappresentano a 360° i valori aziendali e le diverse azioni di seeding più o meno mirate che hanno l’obiettivo di scatenare il mondo del gossip e di far parlare di se’. Nel bene e nel male.

Ultimamente sono state diverse le situazioni che hanno fatto discutere in tal senso, mostrando come, seppur con scenari diversi, lo star system faccia sempre più notizia. Se è apparsa ovvia la scelta di Ferrero di non rinnovare il contratto di Alex Schwazer dopo il caso di doping (nessuna azienda possiede la sfera di cristallo per prevedere quale sarà la condotta del testimonial prescelto), sicuramente più controverse sono state le news recenti “Cruciani – Minetti” e “Nivea – Rhianna”.

L’exploit del fenomeno Cruciani, che con 7 milioni di pezzi venduti ha generato il 60% degli incassi della maison umbra, è senz’altro una case che varrebbe la pena studiare, se non altro per analizzare le ragioni che hanno trasformato un braccialetto da pochi euro in un must have. Non potendo approfondire in queste righe l’argomento, possiamo però osservare il fenomeno dal punto di vista del placement. L’azienda non ha voluto legarsi ad un unico testimonial e in breve tempo i braccialetti con la C sono finiti ai polsi di numerose celebrities con conseguente effetto emulativo; da Belen alla Puccini, dalla Pausini a Paris Hilton solo per citarne alcune. E fino qui nessun ostacolo per il business dei bracciali. Il primo scossone mediatico è arrivato durante l’estate quando è scoppiato il Minetti affair e cioè il vero e proprio “terremoto virtuale” scatenato dalla scelta dell’azienda di dedicare il nuovo braccialetto tricolore alla chiacchierata consigliera regionale. Superfluo dire che sono piovute critiche feroci da più parti nei confronti della griffe e che il web è letteralmente impazzito (pagina Facebook ufficiale di Cruciani in testa) facendo da cassa di risonanza alla gente comune che ha mostrato la propria indignazione per la caduta di stile di aver “eletto” la discussa parlamentare rappresentante del tricolore. Non si è fatta attendere la risposta di Cruciani che attraverso le parole di Luca Caprai ha spiegato il perché della decisione dell’azienda, sottolineando l’apoliticità del marchio e la volontà di abbinare, in maniera ironica e controcorrente, lo spirito patriottico della Minetti alla nuova creazione con i colori della bandiera italiana. Ovviamente non è bastato uno scarno comunicato stampa a placare le polemiche scatenate da questa scelta e si potrebbe discutere per ore sulla questione senza arrivare a capo di nulla. Che piaccia o meno ancora una volta saranno i numeri a parlare e solo i dati di vendita potranno confermare o meno l’impatto avuto dalla querelle estiva. Quello che possiamo dire ad oggi è che sicuramente la questione Minetti ha generato un tam tam mediatico enorme intorno al marchio, aumentandone ulteriormente la visibilità sul web. Ma la vera domanda è: ne vale sempre la pena? Anche a discapito della reputazione? E’ evidente che non esiste un’unica risposta e che molto probabilmente il mondo del marketing e della comunicazione si spacca a metà tra chi ritiene che comunque ne valga la pena (è recente la scelta di Parah di far sfilare la Minetti in passerella) e chi invece preferisce, forse più saggiamente, ragionare con una visione prospettica, evitando di associare il proprio marchio a nomi “pericolosi” per la propria reputation.

Sicuramente in termini di reputazione ha ragionato il nuovo CEO della Nivea quando ha deciso di licenziare in tronco la sua ormai ex testimonial Rhianna  perché ritenuta troppo volgare e provocante nei suoi video e nei suoi atteggiamenti per dare il volto al brand di cosmesi (la sua estate “hot” ha fatto il giro dei principali tabloid). Dopo più di un anno di collaborazione con l’azienda tedesca, Rhianna è stata liquidata con una affermazione secca e concisa da parte del nuovo amministratore delegato, senza lasciare spazio ad alcun dubbio sull’incoerenza tra il brand di cosmesi e la cantante. Una pubblica ammissione di colpa da parte del management che certo non ha scoperto oggi la natura “provocante” della diva ma che ha evidentemente deciso di cambiare strategia di comunicazione, ammettendo i propri errori e scegliendo di riallineare comunicazione e reputazione. Dimostrazione che tornare indietro è possibile, soprattutto se ti chiami Nivea e se hai capito l’importanza della brand reputation.

Nonostante in area marketing vi sia un proliferare di “unioni vip – aziende” fallimentari con dirette conseguenze sulle strategie di comunicazione (negli ultimi anni sono stati diversi i volti noti scaricati dalle grandi aziende perché inadatti a rappresentarne i valori, da Kate Moss a Tiger Woods, per citare alcuni tra i più mediatici) resta indiscutibile la capacità  dell’endorsement di influire in termini di visibilità e di notorietà su una azienda e la conseguente incidenza sulle vendite e sui suoi valori reputazionali. Detto questo credo che il placement continuerà ad essere tra gli strumenti privilegiati per il lancio di un brand e/o di una categoria di prodotto e le celebrities continueranno ad avere un ruolo chiave per il suo posizionamento. “Nel bene e nel male, purché se ne parli” …come qualcuno saggiamente aveva affermato oltre un secolo fa.

 

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