McDonalds? Altissima brand awareness e bassissima brand reputation che tradotto suona, più o meno, che tutti conoscono il marchio di fast food ma pochi lo giudicano bene. Lo sanno anche nelle stanze del marketing e comunicazione della multinazionale americana e hanno deciso di mettere in piedi una campagna istituzionale che mirasse non tanto a ripulire l’immagine di panini e patatine, quanto a sottolineare il ruolo che un’azienda da 16.000 dipendenti (in Italia) svolge nell’economia di un Paese. La logica di comunicazione è semplice: il lavoro, soprattutto quello giovanile, è ormai un tema ad altissima sensibilità sociale. Puntare su questo per una campagna di comunicazione istituzionale non potrà che far presa e ottenere il risultato di far guardare la catena di fast food con occhi diversi da parte del pubblico, insomma, risollevarne un po’ la reputazione. Tutto giusto, teoricamente. In pratica, gli spot di McDonalds on air questi giorni, stanno sollevando un vespaio e non sembra che il risultato sia quello auspicato.
Innanzitutto c’è un aspetto di strumentalizzazione di un tema così sensibile che è stato percepito in maniera netta. La scelta appare maliziosa e un tentativo scoperto di far vestire all’azienda una casacca “buonista”, che mal si addice alla sua immagine. Non parliamo di panini e patatine ma proprio delle condizioni di lavoro nei ristoranti della catena. Che sia vero o meno, lavorare nei McDonalds è considerata la cosa più vicina al lavorare in un call center. Un fianco scoperto, prontamente, e facilmente, attaccato dai sindacati, con il rischio che per la multinazionale possa aprirsi anche un fronte critico proprio su questi temi.
Dall’altra parte c’è un aspetto puramente tecnico. Quando si lanciano campagne di comunicazione su temi così sensibili, è fondamentale che l’azienda sia certa come del sole che sorge, di non essere attaccabile. Numeri alla mano, McDonalds, non sembra così blindata, soprattutto riguardo la forma contrattuale dei prossimi “3.000 assunti”. Contratti a tempo determinato e non indeterminato. Un’over promise evidente che ha reso l’azienda vulnerabile e l’ha avvicinata a un ambito, per così dire culturale, ovvero quello del lavoro con maggiore mobilità e meno tutele, in perfetto stile americano ma che, in Italia, spacca ancora il Paese. Non sorprende l’intervento del ministro Fornero a questo riguardo (“meglio un contratto a termine che disoccupati”) ma quanto conviene a un’azienda schierarsi o farsi posizionare “politicamente” su temi così delicati?
In conclusione la campagna non sembra un grande successo, anzi rischia di rivelarsi un boomerang. E’ il prezzo che si paga quando si cerca di sfruttare temi ad altissima sensibilità sociale per promuovere l’immagine aziendale. Al netto delle valutazioni di opportunità, vanno valutati e messi sui due piatti della bilancia i pro e i contro. Il problema è che troppo spesso i contro pesano decisamente di più.
Va infine sottolineato, come ha fatto notare con acume Giorgio Cattaneo, che il tema “lavoro” sta entrando prepotentemente nella comunicazione. Nel caso di McDonalds si è probabilmente scoperchiato il vaso di Pandora. Un’altra azienda, Ikea, ha vissuto, non per scelta, una crisi sempre su questo tema. Una società appaltatrice della multinazionale svedese ha innescato una vertenza sindacale durissima con alcune cooperative di facchini nel polo logistico di Piacenza. Ikea non c’entrava assolutamente nulla ma, per inesperienza del sindacalismo italiano (lo sostengono alcuni esponenti delle coop piacentine) o per distrazione, si è trovata impallinata dalle stesse rappresentanze dei lavoratori che sono riusciti, usando il Web come una clava mediatica, a coinvolgere Ikea.
Il risultato finale è stato che le persone hanno percepito il colosso dei mobili come l’attore principale (e lo sfruttatore) dei lavoratori in lotta e hanno attaccato violentemente l’azienda sui suoi luoghi Web, in particolare su un sito creato per una campagna che, invece, con intelligenza e delicatezza, usava la voglia di guardare a un futuro migliore.
Presa di sorpresa, Ikea, non ha saputo far di meglio che chiudere il sito, senza rispondere o spiegare le proprie ragioni. Un danno evidente d’immagine e di reputazione, soprattutto online, che ha dimostrato quanto l’azienda svedese debba ancora crescere in termini di comunicazione.
Ed è proprio la crescita in termini di tecniche di comunicazione l’insegnamento che da questi due casi si può trarre. Non si “piegano” temi socialmente sensibili a scopi promozionali, o comunque ci vuole grande eleganza ed estrema attenzione. Secondo, poi il “lavoro”, sta diventando “IL” tema sensibile e quindi un vero capo minato e fonte di pesanti crisi di comunicazione per le aziende.
E’ necessario quindi attrezzarsi, in questo senso, con efficacia ed efficienza ma senza dimenticare che la comunicazione è innanzitutto responsabilità e rispetto per l’interlocutore, rispetto che passa innanzitutto dal rispondere ai propri stakeholders (vero Ikea?) ma anche da non mettere il dito in una piaga (vero McDonalds?).
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Chieffi io sono solo in parte d’accordo con lei sul caso Mc Doanld e le spiego perché.
Sicuramente Mc Donald in quanto a comunicazione istituzionale avrebbe da rivedere parecchie cose e non solo in Italia (imperdibile questa gaffe http://www.youtube.com/watch?v=CNNs3mP_V2M di Mc D. Canada).
Che abbiano messo il dito nella piaga è lapalissiano e, forse, si potrebbe obiettare che la pubblicità in questione abbia un contenuto ingannevole (90% di posti a tempo indeterminato mi sanno un po’ di truffa).
Ma aver puntato sul tema del lavoro è un operazione che porta con sé un po’ di consenso, soprattutto quando i sindacati mostrano tutta la loro ambiguità ideologica nel criticare una multinazionale americana solo perché si autopromuove sul suo punto di forza: la capacità di generare lavoro regolare.
Infatti, nel campo della ristorazione (perché a malincuore di questo si tratta) in Italia abbiamo un sistema tristemente consolidato di contratti a tempo determinato, stagionali, a collaborazione ( questi ultimi a volte con risultanza di poche ore settimanali) che non rappresenta nemmeno la metà della forza lavoro del settore. Tutto il resto è infatti lavoro nero che copre un meccanismo di evasione fiscale (fisiologica a volte) tra i più radicati nel nostro paese.
Perciò i sindacati se la prendono con Mc Donald che, anche nella mia opinione, dà opportunità di lavoro non proprio esaltanti e è quasi impossibilitata ad evadere (come tutta la grande distribuzione), ma continua il suo decennale silenzio istituzionale sulla situazione del settore della ristorazione in Italia.
Perciò, con simili nemici – i sindacati – non mi stupirei se la brand reputation di Mc Donald subisse un, seppure esiguo, miglioramento.
Sul caso Ikea sono perfettamente d’accordo con lei.
PS: sono un tesserato Slow Food.
Riccardo Emmolo
riccardo.emmolo@gmail.com
Gentile Riccardo, condivido la sua analisi sul settore della ristorazione e riconosco che McDonald’s sia, alla fine, un datore di lavoro “solido” e trasparente in questo mondo complesso e opaco. Il problema, però, a mio avviso, non è qui. La mia è un tentativo di pura analisi tecnica dal punto di vista della comunicazione. La catena di Fast Food ha lanciato una campagna di reputation building scegliendo, però, di schierarsi con una parte “culturale”, per non dire ideologica. E’ una scelta legittima ma i risultati (basta vedere i feedback sulla Rete) non mi sembrano confortanti. Per un marchio universale come quello, che ha la necessità di riemergere da una immagine di bassa qualità (e in questi anni lo sta facendo, ad esempio con l’inserimento di menù vegetariani, l’abbinamento con ricette di cuochi famosi come Marchesi, ecc.) potrebbe non essere una scelta efficiente e in grado di danneggiare quanto fatto sinora.
La ringrazio innanzitutto Daniele per la sua risposta – sintomo di serietà – e mi scuso se le replico solo ora ma, sa com’è, non posseggo alcun titolo nobiliare 🙂
I feedback in rete, da ciò che ho potuto constatare superficialmente, non sono così marcatamente di segno negativo e, ad ogni modo, li prenderei, soprattutto nel breve periodo, con una certa cautela.
Una cosa che desideravo sottolineare era relativa al core target degli spot, ovvero i giovani (disoccupati e non),
La CGIL paradossalmente non ha fatto altro che aumentare la eco emotiva dello spot. Perché chi vive in Italia sa perfettamente che giovani e sindacati sono due universi paralleli che non si toccano. E anzi i sindacati sono piuttosto invisi all’universo giovanile. La CGIL, in particolare, ha una preponderante base di tesserati che percepiscono la pensione. Spero che il mio ragionamento ora sia chiaro. Che lo “schieramento ideologico” sia una scelta comunicativamente azzardata è una considerazione che mi trova d’accordo. Ma nel nostro paese anche un piccolo apostrofo colorato a volte sembra ammiccare ad una pseudo-ideologia piuttosto che ad un’altra. Per uscire da quest’impasse a volte bisogna esporsi un pochino.
Grazie ancora soprattutto per i preziosi stimoli.
PS: Non mi ricordavo ma ho letto il suo OLMR circa un anno fa. Ottimo lavoro.
sono d’accordo in parte con questa analisi. Il marchio dai primi del 2000 (anni dei no global e del libro no logo) a oggi ha fatto scelte di prodotto e comunicazione azzeccate in Italia e all’estero e infatti continua ad espandersi.
Già pensare solo alla “m” gialla su sfondo verde, e non più rosso, è una piccola rivoluzione. Provare a immaginare la stessa operazione per marchi altrettanto conosciuti come ferrari o coca cola ci sconvolgerebbe..
Poi la trasformazione da fast food a “healty” food con le insalate e la frutta, l’indicazione delle calorie, l’introduzione dei prodotti locali in ottica glocal è stata altrettando vincente.
E ora la campagnia sul lavoro.. L’unica scelta un po’ avulsa dal contesto, a mio parere, è stata quella di scegliere Salvatores per dirigere lo spot. Forse serviva a nobilitare il prodotto (anche se poteva girarlo chiunque), ma potrebbe prestarsi a qualche critica sui costi di ingaggio..
Gentile Daniele, neppure lontanamente penso di commentare dal punto di vista “tecnico-mediatico” la comunicazione scelta da McDonald’s (attività che lascio volentieri alla Sua competenza).
Sono tuttavia d’accordo con Riccardo ed in parte anche con Lei sottolineando come, dal punto di vista imprenditoriale e di marketing, la multinazionale americana abbia invece “colto l’attimo fuggente”, forse esagerando un tantino nella “client promise”, cercando di dare un’immagine positiva al proprio brand e rendendo palese la sua vicinanza ai giovani.
Quello che mi suona più stonato è invece la critica mossa da CGIL sulla temporaneità della durata contrattuale.Ma non si sono ancora accorti che i contratti a tempo indeterminato (pur auspicabili), il lavoro fisso ad orari diurni, prestabiliti e nei giorni feriali sono ormai richieste superate dai tempi….e dalla competizione globale?
L’accusa di “far retorica” mi pare possa essere rivolta a CGIL, che muove critiche ad una azienda basandosi colpevolmente sul pre-giudizio ideologico (o dietrologico).
Perchè non si evidenzia l’aspetto positivo ossia quanti studenti lavorano regolarmente con contratti a tempo determinato (da McD ma anche dalla DO/GDO) e non in nero come in molte altre situazioni?
Fabio, grazie per le sue osservazioni. Non entro nel merito, mi limito solo a sottolineare che si tratta di un dibattito ancora molto aperto e anche se la posizione della Cgil possa giudicata bene o male, rimane rappresentativa di una ampia fetta di persone, almeno in Italia, contrapposta a quanti sostengo le sue tesi. Sono ambedue posizioni legittime, ovviamente. Da qui, la scelta di un’azienda di collocarsi o farsi collocare in un campo piuttosto che in un altro è anch’essa legittima ma “rischiosa” dal punto di vista comunicazionale. Personalmente non credo che in McDonald’s volessero diventare una bandiera “politica” o, peggio, ideologica, ma il risultato è questo. Risultato che sposta l’attenzione e il messaggio da quello voluto a un terreno diverso. Una sorta di eterogenesi dei fini che, ritengo, non utile, per un’azienda che si rivolge a una clientela estremamente ampia e indifferenziata
Io non sopravvaluterei eventuali riscontri negativi in rete. Qualunque attività di comunicazione si faccia – anche la più riuscita – è inevitabilmente destinata a suscitare qualche critica. Se la campagna non scatena un’ondata di critiche in rete + eco sui giornali e tv mi sembra difficile che si possa considerare un fallimento mediatico o poco riuscita. Anche l’Esselunga è la bestia nera dei sindacati, che in passato l’hanno spesso attaccata portando alla luce alcuni casi di presunta discriminazione sul lavoro. Però, con tutta la simpatia per le lavoratrici discriminate, come cliente Esselunga e conoscente di persone che ci lavorano, NON ho mai avuto l’impressione che gli episodi fossero la spia di cattive condizioni di lavoro generali nell’ambito della catena, almeno per quel che riguarda i quattro o cinque punti vendita Esselunga che ho frequentato. Le condizioni di lavoro di altre catene sembrano peggiori. Con questo non voglio dire che non esistano gli scivoloni mediatici. Solo che – se l’organizzazione in questione non è una montatura criptoschiavista – dopo un po’ il pubblico percepisce se si tratta di propaganda esagerata oppure se ci sono elementi di verità. Insomma, se vai da McDonald’s e i lavoratori complessivamente sorridono e sembrano sereni, è difficile credere che siano schiavizzati o che fingano per otto ore di seguito tutti i giorni.
Per quanto riguarda Mc Donalds non sono affatto d’accordo con te.
La campagna è furbissima, adotta una linguaggio elettoralistico bruciando sul tempo tutti i politici italiani che nei prossimi tre mesi dichiareranno di abbattere le tasse e aumentare l’occupazione. Per quanto riguarda la qualità del lavoro per i giovani in questa multinazionale, ognuno può scegliere se può e badando ai propri interessi, se lavorare in quel settore oppure in un call center oppure altrove; trasmissioni radiofoniche su RadioCapital e facebook stesso hanno messo in rilievo con interviste a lavoratori in Mc Donalds che si tratta di lavoro vero pagato in regola, non stage o altro, organizzato secondo un modello americano ma secondo tutte le norme di legge rispetto al contratto italiano di lavoro turistico. I sindacati CGIL hanno fatto una controcampagna mediatica versus Mc Donalds lamentando che part time non è lavoro vero e che in Mc Donalds vi sono poche adesioni al sindacato…a me è sembrato proprio una assurdità ideologica figlia di una concezione del lavoro che con la globalizzazione è invece totalmente cambiata. Offrire una opportunità di lavoro anche a giovani che non hanno potuto raggiungere un titolo di studio oppure che devono sospendere gli studi per necessità economica, o casalinghe che si trovano nel bisogno di integrare il reddito con marito disoccupato e figli…con questa crisi potremmo trovarci tutti in questa situazione … meno male che qui c’è un datore di lavoro che assume, e non è una vergogna voler capitalizzare con la comunicazione questo investimento . Ma perchè gli dobbiamo sparare addosso, please……un cordiale saluto, Carla
Caro Gianni e cara Carla, vi rispondo insieme facendovi notare solo una cosa: stiamo dibattendo di temi lavoristici. Se Macdonald’s sia o meno un buon posto dove lavorare, se, in realtà, sia meglio un lavoro, sia pure “a tempo” piuttosto che niente, insomma tutti gli elementi del dibattito che si trascina da anni in Italia e legato alla riforma dell’art. 18 e alle forme contrattuali “alternative” alla classica assunzione a tempo indeterminato. Il cuore del problema è proprio qui, a mio avviso. La campagna di McDonald’s sposta l’attenzione dal brand ad altri temi, aprendo un nuovo fronte polemico per l’azienda. Io non valuto se la multinazionale sia o meno un valido datore di lavoro né voglio posizionarmi rispetto alle critiche mosse da Cgil e altri sindacati. Registro solo che non si parla di “food” e dell’immagine correlata ma di altro. Forse sono io a non vederlo, ma mi sfugge il legame virtuoso fra una brand reputation legata a temi occupazionali, oltretutto disputati e non “pacifici” per un’azienda di food. Il limite della campagna è tutto qui, a mio avviso.
Gentile Daniele Chieffi,
ho seguito il suo post a proposito della comunicazione delle multinazionali.
Per quanto attiene a IKEA ritengo che la decisione di aver tenuto un profilo basso non possa essere confusa con la decisione di non rispondere agli stakeholder, comportamento che non rientra nella prassi di trasparenza e di aperta comunicazione che IKEA ha sempre applicato dal momento del suo arrivo in Italia nel 1989.
In particolare in riferimento alla gestione del sito http://www.spazioalcambiamento.it, la dura vertenza sindacale che ha coinvolto IKEA a Piacenza è iniziata con picchetti e blocchi davanti ai cancelli del nostro polo logistico il 17 ottobre ed ha avuto il suo picco nella mattinata del 2 novembre con scontri tra manifestanti e polizia, scontri le cui immagini hanno trovato posto nei titoli dei telegiornali e sulle copertine dei quotidiani.
Ma la tensione era salita già da qualche giorno e già da fine ottobre il minisito aveva cominciato a segnalare interventi molto critici, collegati alle vicende piacentine.
Già da quei primi segnali IKEA aveva deciso di non chiudere nulla, ma lasciare aperta quell’agorà creata all’inizio di settembre.
E veniamo a sabato 10 novembre. 23 giorni dopo l’inizio dei blocchi e 8 dopo gli scontri della polizia. In tutto questo periodo http://www.spazioalcambiamento.it è rimasto aperto accogliendo una serie di considerazioni decisamente negative anche se negli ultimi giorni stavano aumentando i messaggi di comprensione della posizione di IKEA.
Dalle 12.45 del 10 novembre il sito ha ricevuto oltre 4.000 messaggi in un tempo ridottissimo, oltre un contenuto per secondo. Messaggi tutti identici tra loro, generati in modo automatico e contenenti un link palesemente spam e creato per una sospetta azione di phishing attraverso un falso form di login. Questo mentre tutti i precedenti contributi inseriti su spazioalcambiamento.it non erano stati creati da automatismi, ma da utenti che avevano registrato i propri dati e da contributi via twitter.
Come IKEA si è resa conto di quanto stava accadendo, ha agito tempestivamente bloccando il sito per tutelare gli utenti attivi in quel momento, evitando loro di seguire il link inviato con l’attacco, nonché di salvaguardare i dati degli utenti già registrati nel database del sito. A questa è seguita subito la denuncia alle competenti autorità di polizia postale.
La preoccupazione di IKEA durante tutta la vicenda è stata quella di agire tempestivamente per tutelare la privacy degli utenti attivi da quel momento in poi, evitando loro di seguire il link inviato con l’attacco, nonché di salvaguardare i dati degli utenti già registrati nel database del sito. Tutti gli altri canali social IKEA sono rimasti aperti e sono stati utilizzati anche per dare le opportune informazioni ed hanno raccolto i commenti, anche critici, da parte degli utenti, nel rispetto dell’opinione di tutti gli stakeholders coinvolti in questa vicenda. Commenti ai quali IKEA ha sempre risposto, informando tutti gli utenti circa le proprie posizioni.
Valerio Di Bussolo
Responsabile Relazioni Esterne
IKEA Italia Retail srl
Gentile Valerio, innanzitutto grazie per essere intervenuto nel dibattito (perché di questo si tratta). Mi preme, infatti sottolineare che da parte mia c’è solo una volontà di disamina “tecnica”, lontana da alcun giudizio di valore sulle scelte di Ikea e dell’ufficio che tu guidi. Ero a conoscenza dell’attacco che avete denunciato al vostro sito e che a causa di questo, come avete ufficialmente sostenuto, avete oscurato il sito.
L’oscuramento del sito ha portato però, a mio parere, due problematiche. La prima, legata alla percezione, molto condivisa in Rete, che l’attacco fosse una “scusa” per spegnere tutto. In effetti sarebbe bastato, una volta messo in sicurezza il sito stesso, rimetterlo online, magari con una funzionalità che vi permettesse di rispondere direttamente. Credo sarebbe stato ben percepito e avrebbe dato la possibilità a quanti, come scrivi anche tu, iniziavano a difendere le vostre posizioni, di proseguire. Insomma, trasformare quel sito in un luogo di dialogo e di gestione della crisis poteva essere una scelta utile. Secondo poi, l’oscuramento del sito, è stato vissuto male perché, sempre in rete, non è stata ben visibile la vostra interattività precedente. Sul Web era diffusa l’idea che voi non rispondeste, se non attraverso canali più “istituzionali” e questo ha mal disposto gli utenti. Rispondere su altri canali social (e parlo per esperienza professionale personale) può essere una scelta non efficace, se il centro della conversazione è un altro luogo. Dico tutto questo sempre nello spirito di confronto professionale. Quello che ormai, per chi si occupa di Web, è “Il caso Ikea” è un altro tassello di quella intelligenza collettiva (che è superiore alla semplice somma matematica delle intelligenze che la compongono) che credo sia la vera ricchezza del Web. Intelligenza collettiva che, nel caso di chi fa PR digitali, non è altro che un’altra esperienza che fa crescere la nostra professionalità e dalla quale tutti dobbiamo trarre insegnamento.
Gentile Valerio Di Bussolo,
grazie per la sua risposta, che mette a disposizione della nostra community di professionisti e aspiranti tali, informazioni utili a crescere professionalmente. Aiutandoci a capire, come sottolinea Daniele Chieffi, le tante dinamiche che risiedono dietro alle scelte dei PR. Con la P e la R maiuscola.
Credo personalmente che le scelte e le decisioni, per quel che attiene il nostro settore di intervento, siano prese con coscienza professionale e ponderando sempre obiettivi/risultati. Ma, come invece avviene in altri ambiti professionali, secondo il mio parere, manca lo storytelling e la possibilità di condividere gli aspetti soft del nostro mestiere per valorizzare i nostri tecnicismi.
Sarebbe molto interessante per tutti, e credo anche per lei, se nei prossimi tempi vorrà proporci un post a sua firma magari su come nel caso specifico avete analizzato le tante interazioni del progetto http://www.spazioalcambiamento.it, fino al momento dell’attacco. E’ evidente che aprire un’agorà di interazione diretta in rete è un passaggio importante per qualsiasi marca a maggior ragione per IKEA, che ha una soglia molto alta di brand awareness e un traffico sugli store incredibile. Possiamo desumere che durante questa esperienza abbiate fatto un’analisi specifica di ciascun messaggio che vi è arrivato, magari accompagnata da una più generale analisi semantica dei contenuti delle interazioni; insomma per poco che sia durata (per ora) credo sia stata una parentesi importante per la vostra marca e noi, che facciamo questo lavoro, siamo curiosi di saperne di più.