La notizia è di questi giorni. Il marchio Pomì compra alcune pagine sui principali quotidiani nazionali per comunicare ai propri clienti che i suoi pomodori provengono tutti da un’area ben precisa: Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto. Per rendere più chiara l’informazione, le regioni in questione sono evidenziate in verde rispetto al resto della penisola italiana. Il breve testo riporta alcuni fatti (solo pomodori freschi coltivati nella Pianura Padana, a non più di 50 km dagli impianti di confezionamento ecc.) – fatti della cui verità siamo portati a non dubitare, anche perché l’azienda avrà sicuramente fatto controllare l’annuncio dai propri legali per mettersi al riparo da eventuali attacchi della concorrenza. Questo però non è bastato per evitare gli attacchi dei singoli cittadini, potenziati in modo implacabile dalla Rete.
Alla fine, è esploso un altro “caso”, a poche settimane dalla vicenda Barilla. Con la differenza che Barilla ha commesso un “reato di opinione”, mentre il fatto che Pomì prenda le distanze, a fini di marketing, da una tragedia reale, ha fatto scattare la ben più grave imputazione di sciacallaggio (che nessuno invece ha sollevato sulla miriade di marche di pasta che, approfittando delle difficoltà di Barilla, si sono scoperte improvvisamente “politically correct” e hanno partorito annunci pubblicitari “gay friendly”).
Ho parlato prima di “notizia”, di “informazione” e di “fatti” perché la scelta esplicita dell’azienda è stata proprio quella di stare lontana dai modi della comunicazione pubblicitaria: pagina intera con la grafica sobria di un comunicato stampa e toni da precisazione notarile; un po’ come quando le aziende del settore della moda intervengono per difendere i propri marchi dalle contraffazioni.
Non c’è alcun riferimento diretto alla “terra dei fuochi”, ma non ce n’è bisogno, perché l’argomento era stato al centro dell’attenzione dei quotidiani nazionali solo pochi giorni prima (e continua a esserlo oggi, con aggiornamenti sempre più inquietanti). Scegliere di uscire sui giornali con una comunicazione “fattuale” significa proprio “andare in mezzo” a quelle notizie negative che, per contrasto, dovrebbero dare più forza al messaggio di Pomì.
La comparazione non avviene quindi sul piano della classica sfida pubblicitaria tra concorrenti, dove vince chi riesce a essere più convincente (e magari anche più affascinante), ma su quello dell’informazione, dove il metro di giudizio è solo quellodella verità.
La verità, però, è una brutta bestia, che chiede di essere presa alla lettera. Nel momento in cui si evoca la Pianura Padana e la si mette in relazione a una salsa di pomodoro, senz’altro non si dice niente di falso, ma si assesta però un colpo mortale all’immaginario dei consumatori. Dov’è finito il paese del sole e del mare? Dov’è svanito il profumo del basilico? Mi si dirà che questi sono luoghi comuni, ma di luoghi “comuni” è fatto appunto un immaginario che si è soliti definire “collettivo”. Se a un contesto almeno parzialmente immaginario ne sostituisco un altro assolutamente veritiero (quello della Pianura Padana), non so se rendo un grande servizio alla marca, perché il nuovo scenario porterà con sé immagini altrettanto concrete: la nebbia, uno skyline onnipresente di capannoni industriali e code a tratti sull’A4, tra Dalmine e il casello di Agrate. La realtà avrà anche vinto sul mondo degli spot, ma tutto questo, alla fine, pagherà davvero?
Lo potranno dire a breve due indicatori: quello tangibilissimo delle vendite e quello solo apparentemente intangibile della reputazione. Certo è che l’azienda si è infilata in un ginepraio per non aver visto con chiarezza che esistono due piani ben distinti: o si sceglie la verità della notizia, ma allora bisognerebbe sapere bene in anticipo dove si andrà a finire, o si sceglie la verosimiglianza della pubblicità. O così o Pomì.
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