Il mese del Pride offre ogni anno una nuova lettura del panorama comunicativo dei brand. Già da diversi anni, infatti, il Pride nato come marcia per i diritti, si è trasformato in un vero e proprio evento mediatico e un’occasione per i brand di comunicare e posizionarsi sull’importante tema della diversity.

Solo il Milano Pride quest’anno ha potuto contare su 84 partner che, seppur in calo rispetto al 2023 in cui erano 86, ne ha visti 52 sostenere entrambe le edizioni, tra sponsor, ambassador e supporter. Da notare che si tratta di aziende che operano in settori trasversali: industrie, assicurazioni, banche, servizi, prodotti consumer.

Alcuni di questi brand non solo partecipano all’annuale parata, ma impostano vere e proprie campagne di marketing e di comunicazione a tema Pride. Lo dimostrano, ad esempio, Penny Market, che ha realizzato uno spot per valorizzare il proprio impegno a favore del Pride di Milano, e Sephora che supporta il Pride Month con la campagna We Belong Here e una collaborazione con Arcigay, lo spazio digitale “Safe Space” che offre supporto psicologico a chi ne ha bisogno.

Sebbene il supporto dei brand alla comunità LGBTQ+ faccia sì che i consumatori queer si sentano “sicuri” e più inclini a preferire aziende che sostengono i loro diritti, non è tutto oro ciò che luccica. Quante di queste aziende credono autenticamente in questi valori? Quante invece lo sono soltanto di facciata, puntando più sull’apparenza che sui contenuti reali?

Da qualche tempo la fiducia nelle aziende ha cominciato a scricchiolare. Il rovescio della medaglia di questo modo di comunicare è il rainbow washing cui aggiungiamo anche il pride washing ovvero la pratica, un po’ come il greenwashing e il pink washing, di mostrare supporto alla comunità LGBTQ+ con campagne di marketing e di comunicazione, logo arcobaleno e prodotti limited edition senza un vero impegno (economico o di politica aziendale) e che di solito si conclude con la fine di giugno. È la cosiddetta “allyship performativa”. La pigrizia che si riscontra talvolta nel racconto del tema ha portato i consumatori a non prendere sempre sul serio certi brand, scatenando addirittura prese in giro, sfociati in un vero e proprio meme virale sui social.

Quali sono dunque gli “errori” di cui alcuni brand sono accusati sui social? All’origine di tutto c’è la superficialità. Non basta cambiare il logo sui social o far sfilare il loro carro per assicurarsi consensi. Specialmente se poi, una volta concluso il mese del pride, le aziende rapidamente ripristinano il loro logo originale e smettono di parlare di tematiche DE&I (Diversity, Equity & Inclusion). Ed ecco che la reputazione del marchio diventa sempre meno affidabile e più omologata. Il loro attivismo viene visto come “performativo”, ovvero legato solo a una questione di immagine e percezione.

Queste azioni rischiano di banalizzare un tema, quello dei diritti civili, che è delicato e va affrontato con serietà e impegno. Siamo in un’epoca in cui le aziende che valorizzano al meglio la comunicazione e il proprio posizionamento sono quelle che danno un’anima al brand, ne valorizzano i vari tratti di equity quasi come se si trattasse di una persona in carne ed ossa. Questa ricerca passa anche dai valori come possono essere la sincerità, l’autenticità, e anche l’autoironia qualora utile. Questi sono tempi in cui, salire sul carro – letteralmente – del Pride solo perché è il mese del Pride, viene facilmente interpretata come una scelta “automatica”, robotica e senz’anima, dovuta al desiderio di mettersi in vetrina. Se a questo aggiungiamo, poi, che nel mese di giugno il panorama pubblicitario e della comunicazione a tema Pride è saturo, ecco che molti di questi messaggi, quelli più deboli, si perdono nella mischia.

È fisiologico, dunque, che la comunità queer sia diventata più attenta nel selezionare i brand che supportano concretamente, attraverso donazioni e iniziative a favore del personale, la comunità. Un’indagine Nielsen rivela che quasi tre quarti dei consumatori LGBTQ+ smetterebbero di acquistare da marchi che svalutano la loro comunità, mentre il 56% preferisce acquistare da marchi che fanno del bene alla comunità. Così, ogni anno le iniziative delle aziende vengono messe sotto la lente per verificare che siano virtuose a 360°. A Londra, ad esempio, il Pride ha stabilito che per partecipare le aziende devono impegnarsi 365 giorni l’anno e aderire al programma di membership.

Consistenza e coerenza: sono alla base di una buona strategia di posizionamento reputazionale che non può essere sganciata dal cosiddetto purpose aziendale perché sono aspetti chiave di qualsiasi attività capace di incidere sull’equity di marca. La reputazione è un asset di lungo periodo, non può basarsi su interventi spot e tattici. Il pensiero comune ora come ora sembra essere: vuoi supportare il Pride? Devi avere contenuti per farlo.

E diverse aziende si sono distinte proprio perché questi contenuti li hanno. Procter & Gamble è esemplare in questo. Oltre a una costante comunicazione dell’impegno civile e di iniziative all’interno dell’azienda, dal 1992 l’orientamento sessuale è integrato nella dichiarazione P&G sulle pari opportunità di lavoro. Generali ha una ferma policy di cultura inclusiva e afferma di impegnarsi affinché il supporto LGBTQ+ duri tutto l’anno, mentre Google è storicamente attiva nel sostegno della comunità LGBTQ+ attraverso donazioni significative. Una new entry tra i sostenitori del Pride è Juventus FC, che ha preso consapevolezza che il supporto all’inclusione deve essere un impegno costante … ma stiamo parlando di un mondo, quello del calcio in cui le ombre hanno bisogno di molti arcobaleni, e non solo sul tema diversity. Detto questo la scelta della Juventus, unico club di calcio tra i partner del Milano Pride, è una “posa della prima pietra” dal punto di vista del posizionamento reputazionale, considerando che nel mondo del calcio, più che in ogni altro sport, la tematica LGBTQ+ è da sempre un tabù. Possiamo dire che è l’inizio di un nuovo campionato ma senza continuità…difficile qualificarsi… dal punto di vista della brand reputation.

Il modo migliore per un marchio di assicurarsi di non cadere in un “buco nero” reputazionale è avere uno storico di attività a sostegno della comunità per tutto l’anno. Il rainbow washing non è un concetto solo da addetti ai lavori: è una cosa che notano le persone comuni, soprattutto quelle LGBTQ+ e i supporter.

Ma se la comunità queer è infastidita dall’opportunismo dei brand, il fronte dell’opposizione è ancora più rumoroso e pericoloso sul loro disdegno per il rainbow washing. In tanti sostengono infatti che molti brand di intrattenimento, ad esempio, inseriscano forzatamente un’esagerata sovraesposizione di soggetti queer per competere in una sorta di “Olimpiadi dell’inclusività”.

Ciò è in alcuni casi comprensibile, ma in altri rischia di esporre il fianco alla critica feroce di un gruppo di utenti/clienti. E per i grossi brand il cui target è molto diversificato, mostrare eccessivo supporto alla comunità può far incappare in problematiche più serie. Esemplare è stato il caso americano della catena Target. Nel 2023 Target aveva dedicato un’intera linea di prodotti al pride, scatenando l’ira dei conservatori americani di destra, fortemente critici nei confronti di quella che loro chiamano “propaganda woke”. I detrattori hanno intrapreso una vera operazione di boicottaggio che ha avuto successo, tanto che le vendite del marchio sono scese del 5,4% in soli tre mesi. A seguito di questi comportamenti, accompagnati da atti di vandalismo negli store, Il colosso americano ha rapidamente ritirato dai suoi negozi il merchandising arcobaleno, facendo di conseguenza arrabbiare i consumatori LGBTQ+ e i supporter, che li hanno accusati di “piegarsi ai capricci dei fascisti”.

Target si è trovato perciò in una situazione di perdita di credibilità da entrambi i lati, per cui nel 2024 il marchio ha ridotto il numero di negozi che vendono la merce di edizione Pride.

Quando un brand decide di comunicare in occasione e in favore del Pride, deve quindi mettere in conto la possibilità di andare incontro a critiche. Proprio per questo è fondamentale mantenere sempre la rotta, senza tornare sui propri passi. La strategia comunicativa può rivelarsi, a volte, inefficiente e richiedere aggiustamenti che possono perdurare anni, rischiando di incappare in crisi reputazionali da cui diventa sempre più complesso uscire.  Il mero rainbow washing è, in conclusione, una strategia molto pericolosa. Come per ogni valore che compone il brand, anche sostenere la comunità LGBTQ+, va fatto in modo autentico e sincero. Inseguire la reputazione facile e immediata non è mai la scelta giusta, specialmente a lungo termine.

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