Dire che il web abbia profondamente cambiato le dinamiche sociali è un’affermazione incontrovertibile. Velocità, condivisione, viralità sono diventati in pochissimo tempo nuovi paradigmi dell’agire quotidiano e, di conseguenza, del comunicare. Ecco perché è sempre in crescita il numero di soggetti pubblici che scelgono i social network per diffondere i propri valori e i propri messaggi – siano essi persone, aziende o organizzazioni no profit-. E proprio per quanto riguarda il terzo settore, una recente indagine realizzata dalla Fondazione Sodalitas -in collaborazione con l’Istituto Italiano della Donazione- dimostra come, a prescindere dalle dimensioni e dalle caratteristiche delle organizzazioni interessate, esso utilizzi molto spesso i social network come leva per agire positivamente sull’awareness. In particolare, secondo lo studio, ben l’85,7% delle no profit italiane si rivolgerebbe ai nuovi media per ottenere maggiore visibilità e il 69% li utilizzerebbe per diffondere campagne di sensibilizzazione, ma, a fronte di un così massiccio ricorso al medium, solo il 10,3% avrebbe riscontrato un concreto beneficio. Perché?
Un’interessante prospettiva interpretativa viene dalle conclusioni della ricerca realizzata dal Center for Social Impact Communication della Georgetown University e da Waggener Edstrom Worldwide che ha analizzato percezioni, comportamenti e motivazioni di 2.400 americani nei confronti delle associazioni o delle cause sociali attive (e seguite) nella rete, scoprendo come l’agire virtuale segua logiche prettamente istintive (empatiche, emozionali) più che razionali.
L’inclinazione a seguire “scelte di pancia” trova riscontro nella classifica dei temi più seguiti sui social media che vede ai vertici gli animali (41%), seguiti dai bambini (37%) e dalla salute (19%): tutti soggetti in grado di stimolare un’immediata risposta emotiva.
Temi caldi per l’agenda politica internazionale come i diritti umani (18%), ambiente -e emergenze (16%)-, violenza domestica (11%) e condizione femminile (7%) sono invece relegati, a sorpresa, ai margini del ranking stilato dall’università americana. Il dato è particolarmente significativo perché dimostra come, sebbene la rete sia per definizione il luogo della condivisione, essere online non è la condizione necessaria e sufficiente per ricevere likes e avere follower. Tanto meno per creare reputazione.
Per essere vincenti nelle piattaforme social è invece necessario imparare le regole di questo nuovo media, con particolare attenzione alle specifiche modalità di fruizione (contesto ricreativo, consultazione veloce).
Ecco perché i comunicatori del terzo settore dovrebbero studiare a fondo questo canale. La sfida è infatti individuare e definire nuovi strumenti in grado di dare ai propri significati, significanti coerenti con il contesto e con il codice linguistico, massimizzando in questo modo l’efficacia comunicativa del messaggio oggetto di comunicazione (a prescindere dall’appealing potenziale del soggetto) e, se è vero che l’81% delle persone online partecipa a cause sociali, intercettare questa tendenza e trasformarla in reale cambiamento.
Ma l’indagine offre un’interessante riflessione non solo per chi opera nel no profit ma anche per chi, nelle aziende, si occupa di costruire, consolidare e proteggere la reputazione. L’analisi della Georgetown University rivela infatti l’esistenza di un gap tra i temi rilevanti per la politica internazionale e per i media -ambiente e condizione femminile in primis-, e quelli percepiti come predominanti nei social da parte degli utenti. Un dislivello che assicura, a chi saprà leggerlo come opportunità, la possibilità di cavalcare –strategicamente- temi già di interesse per i media e per la politica -ma ancora poco visibili all’interno dei dibattiti che si generano nei social media- per generare nuova adesione online tra gli utenti, e creare al contempo contenuti positivi e qualificanti per lo storytelling aziendale, in linea con le richieste informative dei media, per definizione.
E anche se la strada è ancora lunga -secondo il Csr Manager Network tra le 100 aziende italiane che pubblicano il bilancio sociale, appena l’11% si distingue per l’uso attivo di Twitter e Facebook – i primi segnali ci sono: mentre Fulvio Rossi, neoeletto Presidente del Csr Manager Network (e Corporate Social Responsibility Manager di Terna), parla di una “CSR di nuova generazione capace di stimolare realmente processi di innovazione del business e di cambiamento sociale”, Il Corriere della Sera dedica un bell’articolo a ItaliaCamp il network che unisce 70 università italiane, istituzioni e imprese – e che ha tra i propri soci fondatori Inps, Ferrovie dello Stato, RCS Media Group, Poste Italiane, Gruppo Unipol, Wind, Enel Green Power, Sisal – con l’obiettivo di mettere in contatto le migliori soluzioni elaborate dalle nuove generazioni, con i possibili finanziatori.