United, Delta e American Airlines sono al centro di durissime polemiche da settimane a causa di una gestione improvvisata delle conseguenze di overbooking, e l’impatto negativo sulla reputazione dei tre brand e dei relativi top manager sta diventando un triplice caso di studio.
Il problema, non è tanto la pratica in sé, utilizzata da sempre per ovviare al problema degli aerei vuoti, quanto la sua gestione. Fino a qualche anno fa il passeggero che a causa di ovebooking subiva un disservizio inviava una lettera di lamentele e di richiesta di risarcimento alla compagnia aerea, e la cosa finiva lì: un dialogo one to one. Oggi il viaggiatore tipo è diventato un regista, è capace di filmare, fotografare e pensare una sceneggiatura, è capace di post-produrre e soprattutto ha a disposizione una moltitudine di piattaforme per condividere le proprie avventure e disavventure sui social media. Oggi perciò, quando è un brand affermato la causa delle disavventure di un “regista”, iniziano i guai.
Ad aprire le danze è stato il passeggero trascinato giù da un aereo della United e ripreso dagli altri viaggiatori: pubblicato da Business Insider su YouTube, il video, ha superato i 4 mln di visualizzazioni. Dopo pochi giorni ecco la reazione del brand su Twitter, con un post di scuse del CEO della compagnia Oscar Munoz che ha collezionato ben 64.761 commenti e 21.452 ricondivisioni. Non è da meno il video di una mamma in lacrime con in braccio la sua bambina su un aereo dell’American Airlines, la cui ricondivisione accompagnata di copy come “rissa sfiorata” o “incredibile video” ha portato le conversazioni sulla compagnia aerea a quota 53,7 K, di cui il 75% con sentiment negativo. Percezione cui ha contribuito in modo importante anche il video del padre che cerca di capire come mai avrebbe dovuto viaggiare col bimbo sulle ginocchia pur avendo pagato un biglietto in più.
Le reazioni, che demarcano una strategia di comunicazione di crisi lacunosa, non sono state proprio esemplari e, tra queste, i goffi tentativi di scuse da parte del CEO di United Airlines Oscar Munoz sono un esempio. Non basta più “chiedere scusa” e prendere provvedimenti, sebbene esemplari. La velocità con cui i video di questi tre casi sono arrivati sotto gli occhi di tutti e sono diventati virali impone di ripensare la customer care in caso di overbooking in ottica proattiva. Una gogna mediatica online che dura da un mese e mezzo è qualcosa che, come sottolineano i dati di sentiment intorno alla United Airlines (a distanza di un mese ci sono ancora 198,4 K conversazioni attive, di cui l’81% è negativo), può dimostrarsi fatale per la reputazione di un brand.
Chissà quali attività di recovery e che ordine di investimenti in comunicazione dovranno prevedere United, Delta e American Airlines, soprattutto osservando il loro posizionamento di partenza. Nel report rilasciato dal Reputation Insitute sulla reputazione dell’industria aerea mondiale, risalta l’ottima posizione di Delta Airlines, 14esima nella classifica che si basa sulla percezione ed il sentiment nazionale. Questo lascia intendere che i responsabili della comunicazione e delle media relation partono leggermente avvantaggiati rispetto agli altri attori sulla scena. Meno positivo il piazzamento di American Airlines, 18esima, che però distacca di molto United Airlines, la cui situazione, si può dire, è decisamente grave. Questa compagnia occupa il 27° posto di una classifica sulla reputazione che tiene in considerazione anche la familiarità con il brand, sottolineando quanto poco sia collegata alla percezione dei passeggeri. Chissà che posto occuperanno United, Delta e American Airlines il prossimo anno.
Cari autori il vostro articolo, che condivido pienamente, mi stimola ad intervenire per porre l’accento su un aspetto, a mio parere, molto sottovalutato nelle aziende: quello della responsabilità oggettiva.
Nelle strutture a silos dove ognuno guarda al proprio business questo tipo di responsabilità è poco sentita o, peggio, ignorata poiché spesso le conseguenze ricadono su altri. Solo nei casi più gravi arriva a coinvolgere i vertici aziendali e a quel punto, nonostante ridicoli scaricabarile, la crisi reputazionale travolge tutti e impone di rivedere i processi interni di responsabilità e circolazione dell’informazione.
Il percorso da fare è di tipo culturale e ha bisogno di essere profondo e convincente. Alcune aziende, dopo gravi crisi reputazionali, per evitare il ripetersi degli stessi errori, hanno avviato forti azioni di formazione e responsabilizzazione al fine di diffondere la cultura della responsabilità oggettiva verso la brand reputation. A mio avviso sarebbe utile inserire tra gli indicatori per la valutazione dei manager dei kpi che misurino il loro contributo alla brand reputation. Ciò permetterebbe di individuare un benchmark al di sotto del quale l’azienda si impone di non scendere e al di sopra del quale può premiare i comportamenti più virtuosi e parallelamente sanzionare quelli negativi.
Spero che queste mie brevi considerazioni possano essere utili ad alimentare il dibattito e creare maggiori consapevolezze. I social sono un giudice severo e spesso senza possibilità di appello… meglio attrezzarsi prima!
Cordiali saluti
Gentile Francesco, grazie per il tuo commento che aggiunge knowledge e un’analisi puntuale. L’immagine dell’azienda a silos è quanto mai efficace ed evidenzia le difficoltà di gestione “a cascata” e spesso last minute dell’asset reputazionale che, nelle aziende più strutturate, fa capo alle direzioni relazioni e media relations che sono la voce e il filtro dei vertici aziendali. L’idea dei KPI sul contributo dei top manager alla reputazione è quanto di più utile ci potrebbe essere per cristallizzare nelle imprese la cultura sugli asset intangibili, stimoleremo il dibattito in tal senso e, se vorrai, aspettiamo tuoi contributi sul blog.