Anche quest’anno il Times Higher Education ha pubblicato il suo “World Reputation Rankings“, con la classifica delle migliori università mondiali. Nessuna sorpresa ai vertici, dominati dalle Università Statunitensi ed Inglesi, Harvard e Mit, Oxfod e Cambridge, per chi dovesse avere dei dubbi, e nessuna traccia dell’Italia nella top ten.
Suonerebbe falso fingersi stupiti per l’assenza degli Atenei italiani ai vertici della classifica, ma qualche considerazione sorge spontanea se è vero che il nostro è un paese ricco di storia e di tradizione, che è la patria della cultura, la culla di alcune tra le più antiche Università al mondo. Tutti fattori innegabili ma che evidentemente non fanno la differenza ne’ tantomeno aiutano a piazzare l’Italia nella classifica di riferimento delle migliori Università al mondo. E’ evidente che la qualità da sola non basta, non basta la storia, la cultura, lo studio. Niente vale se non lo si sa comunicare, se lo si tiene per se ’, se non lo si condivide e se non può vantare una solida reputazione che conduca al di là dei propri confini, mentali e territoriali. Anche perché nell’era digitale parlare di limiti e confini suona davvero stonato.
Senza entrare nel merito di quelli che sono i criteri tecnici dei diversi enti che stilano le classifiche dei più illustri Atenei (considerando che comunque l’Italia non svetta in nessuna delle classifiche) sono principalmente due le considerazioni da fare. La prima è di ordine più pratico, legata ad un innegabile problema di sistema e di risorse che l’Italia si trova a dover affrontare parlando di istruzione. Infatti, come ha dimostrato una recente ricerca dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur), dal 2009 il finanziamento complessivo del ministero dell’Istruzione, dell’Universita’ e della ricerca al sistema universitario si e’ ridotto di circa 1miliardo; uno scenario decisamente poco incoraggiante, che non può essere ignorato di fronte ad un sistema di ranking internazionale, e che probabilmente impedisce di ragionare in termini di internazionalizzazione e di proiezione verso il mondo del lavoro, grandi assenti negli atenei del nostro Paese.
L’altra considerazione che viene da fare riguarda invece l’Italia più in generale e nello specifico la sua capacità di “vendere” i propri prodotti intellettuali, la propria “intelligentia” in modo da attrarre studenti e neo laureati. Della serie possiamo anche vantare i migliori talenti nelle più svariate discipline, ma se non lo sa nessuno o se peggio ancora li lasciamo migrare verso altri lidi, a poco servono. Gli Atenei italiani non “raccontano” la propria offerta formativa, non vantano i traguardi ottenuti da studenti meritevoli, ne’ le proprie competenze effettive, non mostrano un percorso didattico capace di attirare studenti. E questo a differenza delle Università straniere che puntano molto sulla comunicazione, che sanno fare rete, stimolando gli studenti da un lato, valorizzando le proprie risorse e conferendo prestigio alla struttura dall’altro. Gli studenti sono al centro delle Università estere che promuovono la cultura proprio attraverso di loro, riconoscendo il paradigma vincente che vede domanda ed offerta coincidere.
Evidentemente si tratta di un problema di sostanza, oserei dire di dna di un Paese che, probabilmente, non si apprezza abbastanza e che preferisce ripiegarsi su se stesso piuttosto che aprirsi al mondo e raccontarsi. Servirebbe forse un moto di orgoglio che portasse l’Italia a credere di più in se stessa e soprattutto a lavorare in termini di reputation building, un valore imprescindibile soprattutto se applicato su scala globale.
A riportare speranza in questo quadro a tinte fosche arriva la recente analisi del Centro Nexa su Internet e Società in collaborazione con il Politecnico di Torino.
Sembrerebbe, infatti, che le università italiane stiano diventando gradualmente più “social”, da cui la ricerca diffusa con l’hashtag #socialUniversity che vede primeggiare in classifica i piccoli atenei per la loro presenza attiva sui principali social network, Facebook e Twitter, grazie alla quale stanno recuperando visibilità e fiducia soprattutto da parte degli studenti. L’80% degli atenei italiani è su Facebook e il 76% su Twitter.
Le prerogative degli account social sono principalmente quelle di customer care verso gli studenti e divulgazione di materiale didattico attraverso lezioni online o blog universitari.
Tuttavia dalla ricerca emerge, come già rilevato, che la comunicazione degli Atenei italiani è abbastanza carente dal punto di vista dei risultati delle ricerche e della valorizzazione delle eccellenze. Un grande segno di miglioramento tutto sommato, ottenuto aggirando le difficoltà strutturali e utilizzando nuovi strumenti che avvicinano le Università al loro pubblico.
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