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La carriera della fashion blogger è durata il tempo di un tweet

Svolgeva la professione di fashion blogger ed essendo accusata di aver  sottratto circa 220 capi di diverse marche importanti di abbigliamento per un valore complessivo di 60 mila euro, l’utilizzo del verbo al passato ci sembra quanto mai opportuno.
La giovane “esperta di moda”, attraverso astute ed ingegnose manovre ed un’aria assolutamente insospettabile, ha  compiuto un colpo da maestra del furto più che della comunicazione, accumulando nel suo appartamento un tesoro con pezzi tra i più disparati che, per l’accusa, sono stati sottratti dalla blogger dopo i servizi fotografici con le modelle. Considerando che nessuno si rendeva conto subito del furto, la giovane aveva tutto il tempo di metterli in vendita sul suo blog, dove dispensava consigli fashion, spacciandoli per abiti comprati per sé e mai indossati.

A prescindere da quelle che sono le normali considerazioni sull’accaduto, quanto  è successo  fornisce uno spunto di riflessione degno di nota, non sull’episodio in sé ma sul mondo del web e sulla credibilità dei suoi attori. Ansia di arrivare prima, di postare tutto e subito fanno spesso cadere in trappole pericolose dove la veridicità delle notizie viene fortemente penalizzata, come è accaduto al Corriere.it, proprio a proposito dell’episodio della blogger, che nel suo pezzo ha riportato nome e blog sbagliato. E si sa che la rete, che è fatta di mille occhi e mille orecchie, non perdona e ha segnalato l’accaduto, coinvolgendo in prima persona il Direttore Ferruccio De Bortoli, che da par suo ha inviato un tweet di pronte scuse.

Che nell’epoca delle piattaforme digital e social, la figura dei blogger sia diventata cruciale è innegabile e comprensibile, cosi come il fatto che ormai la maggior parte del giornalismo ha a che fare con le nuove piattaforme digitali e richiede una competenza molto più ampia e specifica rispetto alla generazione precedente. Bob Cohn, una delle tante voci che si è espressa sul tema e direttore della versione digitale di The Atlantic, ha toccato durante sue recenti dichiarazioni un punto cruciale, spiegando come il giornalista di oggi debba saper fare tutto e dominare i nuovi strumenti e i nuovi linguaggi: “tutti i giornalisti sono dei direttori”. Un pensiero evidentemente ben lontano dal dibattito aspro ed in un certo senso artefatto che si è aperto in Italia sul disegno di legge sulla diffamazione in cui giornalista e direttore avendo differenti responsabilità, qualora concorrano in un reato devono subire pene commisurate al ruolo. Siamo davanti ad un cambiamento epocale, difficile da controllare e da monitorare ed è, come dimostra il caso della fashion blogger un working progress di nuove esperienze. Se infatti è corretto che chiunque possa aprire un proprio blog in cui raccontare e raccontarsi liberamente, oppure di utilizzare i social come strumento per parlare al mondo, è forse altrettanto vero che quest’esplosione virtuale rischia di ridimensionare alcune caratteristiche e responsabilità di chi fino ad oggi era deputato ad informare o approfondire un tema: siamo agli arbori di un’anarchia digitale che non è in alcun modo controllabile? Velocità, voglia di emergere, diffusività, viralità; quali caratteristiche si celano dietro all’attività di content management? Come mai alcune case di moda hanno elevato al rango di influencer o se preferite per dirla alla “Cohn” al ruolo di direttore una blogger con così poca carriera alle spalle? Ovvio è che disintermediazione non è ancora sinonimo di deresponsabilizzazione e nello specifico caso la cronaca nera ha avuto il sopravvento, ma è pur vero che quantitativamente i blogger oramai sono tanto numerosi e influenti tanto che oggi non si sa più chi sia il vero trend setter: la  moda o il digital?

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