Ikea ha veicolato nel suo sviluppo una solida cultura di eccellenza, proponendo un modello di impresa che ha una “coscienza” e fa sempre ciò che è giusto. Un marchio politicamente corretto che ha sempre saputo da che parte schierarsi in molte battaglie, da quelle contro lo sfruttamento minorile a quelle, più recenti, a favore dei diritti degli omosessuali o della dignità delle donne. Le donne sono al centro di diverse campagne sociali promosse dalla multinazionale svedese perché, come campeggia sul sito dell’azienda “sono fondamentali per migliorare il benessere dei propri figli e promuovere una svolta duratura all’interno della società”. Nel 2009, ad esempio, IKEA ha avviato un programma volto a migliorare le condizioni sociali, economiche e politiche di 50.000 donne in 500 villaggi in India (paese da cui provengono una serie di subforniture), fornendo loro gli strumenti per svolgere un ruolo determinante in famiglia, nella comunità e nelle istituzioni locali. Un ruolo che però viene rinnegato dall’azienda svedese quando si scontra con le logiche del profitto e con strategie di comunicazione un po’ troppo accomodanti. E così tutte le foto che rappresentavano qualunque esemplare del genere femminile sono scomparse dai cataloghi IKEA destinati ai paesi dell’Arabia Saudita. Un intervento digitale che ha eliminato con la gommina del Photoshop tutte le immagini di bambine o donne dal catalogo per andare incontro alle rigide regole del paese dove foto simili, con il volto scoperto, sarebbero state giudicate indecorose. A sollevare il caso è stata l’edizione svedese della free press Metro, che ha messo a confronto il catalogo standard (distribuito in 208 milioni di esemplari in 43 paesi diversi) con quello specifico per il mercato saudita. A guardare le immagini una vicina all’altra si potrebbe giocare a “trova le differenze”, ma si vince facile. Il dettaglio in meno è sempre lo stesso: le donne.
Questa scelta ha ovviamente scatenato le proteste non solo del web (gli insulti sulla pagina Facebook dell’azienda ne sono un chiaro esempio) ma anche del governo svedese. Il ministro per gli affari Europei, Birgitta Ohlsson ha definito “medioevale” la decisione dell’azienda, mentre Ewa Bjorling, ministro del Commercio, ha affermato che “non si possono cancellare le donne dalla realta’. L’Arabia Saudita ha regole molto retrograde per quanto riguarda la segregazione dei sessi: le donne non devono lavorare, viaggiare o studiare senza il permesso dei padri o dei mariti, e di guidare l’automobile non se ne parla. Figurarsi apparire su un catalogo mentre si infila una federa a un cuscino o si legge un libro sedute in riva a un lago.
L’atteggiamento dell’Ikea è stato vissuto come un adeguarsi e cedere nei confronti di un paese che discrimina le donne. E va bene che, come sostiene la portavoce dell’azienda Ulrika Englesson Sandman, ogni volta che Ikea (come qualsiasi altra azienda d’altronde) entra in un mercato nuovo, debba trovare un compromesso con leggi, valori e cultura locali. Ma questo non significa perdere per strada i propri valori. Non è “fair” dichiararsi un’azienda moderna, aperta e democratica, in prima linea nella difesa dei diritti civili, e poi inciampare proprio su principi importanti come la parità dei sessi e la dignità delle donne. E’ stato un errore, ci dicono. Per rispondere alle polemiche, nel comunicato ufficiale Ylva Magnussun, Public Relations Manager del Gruppo, assicura che la parità tra uomo e donna è un elemento fondante del codice etico dell’ Ikea; esprime rammarico sottolineando di «aver dovuto reagire prima» e che «l’esclusione delle donne dalla versione saudita del catalogo è in conflitto con i valori del gruppo Ikea». Un semplice disguido, in definitiva. Ma forse l’armonia tra l’attenzione alla persona e le leggi di mercato su cui si basa la visione strategica dell’azienda si è spezzata.
Un comportamento così apertamente incoerente potrebbe creare un danno a Ikea, che nel 2012 secondo l’annuale studio RepTrak(tm) Pulse di Reputation Institute si è aggiudicata il settimo posto tra le aziende con la miglior reputazione operanti in Italia, guadagnando 4,2 punti in più rispetto all’anno precedente? Oppure la percezione del ruolo e della vocazione sociale dell’azienda rimarranno intatti e aveva ragione il Newsweek quando nel 2001 la definì “the teflon company” per indicare come le crisi non si attaccano su quest’impresa che ha dimostrato in moltissime circostanze di comportarsi in modo socialmente responsabile?
Per il momento abbiamo rilevato un forte interesse in rete verso la vicenda; la mappa contestuale di Cream (dal 1 ottobre ad oggi) evidenzia infatti che all’interno di numerosi articoli online le parole “arabia saudita”, “donna” e “cancellare” sono associate al brand.
La rete, quindi, ne ha parlato tanto. A volte con ironia. Dopo qualche giorno dall’uscita dell’articolo denuncia di Metro è stato creato a livello internazionale un blog ikeafiles.tumblr.com dove gli utenti si sono scatenati a postare immagini famose sostituendo le donne protagoniste con prodotti Ikea. Una risposta immediata per sottolineare con umorismo che la scelta perseguita dal colosso dell’arredamento non è stata apprezzata.
Ma anche in passato c’erano stati episodi non proprio eclatanti per l’azienda svedese che avrebbero potuto avere delle ripercussioni sulla sua reputazione. Non scordiamoci ad esempio i pesanti scioperi fatti dal personale Ikea a Roma e a Milano, proprio per le condizioni di lavoro troppo pesanti e le paghe troppo basse. Eppure non hanno intaccato la percezione positiva che i consumatori hanno dell’eticità, della sostenibilità e della trasparenza della multinazionale.
Personalmente, per avere una visione più ampia della questione, mi leggerò il libro “Ikea, mito e realtà” di Johan Stenebo, un ex dirigente che ripercorre gli anni da lui trascorsi e la crescita impressionante che ha sperimentato come protagonista. Spero mi offra qualche nuovo spunto di riflessione che condividerò volentieri con voi.
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