Appena concluse le fashion week, che hanno visto i grandi brand della moda attraversare le quattro capitali New York, Londra, Milano e Parigi in una passerella durata poco più di un mese, si torna alla quotidianità, fatta di trend che si consolidano ma anche di acquisti “fast” la cui sostenibilità lascia in alcuni casi a desiderare. Accostare il concetto di fast fashion a quello di sostenibilità ambientale può sembrare alle volte un controsenso. Eppure, è evidente come i principali attori di questo settore non si siano fatti mancare, nel corso degli ultimi anni, collezioni sostenibili da pubblicizzare per attirare consumatori sempre più attenti alle politiche dei brand in favore dell’ambiente. Alla base di queste strategie di comunicazione green spesso ci sono certificazioni internazionali di enti terzi, che attestano la qualità e l’impatto ambientale di materiali, processi di produzione e supply chain di questi prodotti. Una di queste certificazioni, l’Higg Materials Sustainability Index, sviluppato da Sustainable Apparel Coalition (SAC), è finita recentemente nel mirino di polemiche che stanno avendo ripercussioni sulla reputazione di uno dei colossi mondiali del fast fashion, H&M.

L’obiettivo dell’Higg Index sarebbe quello di misurare la sostenibilità dei prodotti elaborando una serie di parametri – dalla riciclabilità dei materiali utilizzati a come vengono estratti – oggetto di un recente servizio del New York Times, che ha riportato una pluralità di voci di esperti contrari al loro utilizzo, secondo cui l’Higg Index sembrerebbe spingere i marchi più a utilizzare fibre sintetiche, ottenute da combustibili fossili, invece che quelle naturali.

Ma non solo. Sempre H&M ha ricevuto all’inizio dell’estate l’invito, da parte dell’Autorità norvegese per i consumatori, a smettere di usare l’Higg Index come strumento di benchmark della sostenibilità, in quanto accusato di favorire la comunicazione di dati fuorvianti per i consumatori. A ciò si aggiunga che appena un mese fa è stata depositata, in un tribunale federale di New York, una class action contro il marchio svedese con l’accusa di comunicare dati contraffatti sulla sostenibilità dei prodotti della linea “H&M Conscious” e quindi di confondere i consumatori. In che modo lo spiega il rapporto di Quartz, fondamento scientifico della class action newyorkese, che ha dimostrato come H&M utilizzasse un sistema di valutazione della sostenibilità ingannevole  – realizzato con l’uso dell’Higg Index – poiché più della metà delle informazioni disponibili nelle schede prodotto online, ad un’analisi più approfondita sono risultate essere poco veritiere o addirittura false. A seguito dell’attività di debunking di Quartz, H&M ha rimosso tutte le schede di valutazione della sostenibilità dal sito.

Analizzando i comunicati stampa di H&M dedicati al tema della sostenibilità, disponibili ad oggi, saltano subito all’occhio due elementi. Il primo è che sia nel 2021 che nel 2022 (anche se non ancora concluso) il numero di comunicati dedicati al tema si è ridotto notevolmente: 1 all’anno contro i 2 del 2020, e addirittura i 10 del 2019. Ma soprattutto sia nel 2021 che nel 2022 quell’unica comunicazione in ambito sostenibilità riguarda aggiornamenti sull’Higg Index, alla cui crescita e utilizzo H&M contribuisce sin dalla creazione nel 2012 di SAC, di cui il brand svedese è socio fondatore, e su cui sembra aver costruito gran parte della sua reputazione in ambito “green”.

Non è la prima volta che H&M si trova a dover gestire una crisi di portata globale. Dopo le polemiche di media e associazioni no-profit del 1997 sulle condizioni di lavoro inique a cui erano sottoposti alcuni operai, è stata la volta, nel 2010, dello scandalo inerente ai grandi volumi di cotone geneticamente modificato falsamente immessi sul mercato tedesco come cotone biologico. A seguito di queste vicende, tuttavia, il marchio svedese ha messo a punto una strategia di CSR e di “Uso responsabile delle risorse naturali” che negli anni si è sviluppato sempre di più portando il brand a posizionarsi nel 2015 al 71° posto della classifica di Brand Finance (battendo Zara al 142° posto). Nel 2022 il brand H&M è però sceso al 160° poto (perdendo 13 posizioni sul 2021 e 89 sul 2015), al contrario di Zara che trovandosi attualmente alla 151ª posizione, si ritrova a perdere 11 punti dal 2021, ma solo 9 rispetto al 2015.

Naturalmente il problema del greenwashing associato al settore del fast fashion non riguarda solo H&M. Lo scorso 29 luglio l’Autorità per la concorrenza e i mercati britannica ha aperto un’indagine su Asos e Boohoo, in merito alle campagne pubblicitarie sulla sostenibilità dei loro prodotti. E risale a marzo 2022 il rapporto della fondazione olandese Changing markets che ha analizzato ben dieci certificazioni – tra cui l’Higg Index – usate dai marchi fashion per dichiararsi sostenibili in comunicazioni ufficiali e sulle singole labels. Le uniche certificazioni valutate positivamente sono Ecolabel, Bluesign, Oeko-tex e Texile exchange soprattutto perché non subordinate agli interessi dei marchi che le utilizzano.

La credibilità delle marche del fast fashion quando parlano di ambiente si sta dunque sgretolando? È probabile di sì, ed è bene che i marchi se ne rendano conto prima di perderla del tutto, anche perché, come rivelano i dati raccolti da The Fool – almeno per quanto riguarda gli italiani –  “le false dichiarazioni di sostenibilità o di impegni ambientali sono la prima motivazione, per il 48% degli italiani, per smettere di acquistare i prodotti di un determinato brand”.

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