Un (altro) brutto colpo alla reputazione del ‘Made in Italy’ lo ha appena inflitto la trasmissione Report con l’inchiesta di Bernardo Iovene su uno degli alimenti simbolo della tradizione gastronomica Italiana, soprattutto all’estero: la pizza.
L’inchiesta ha passato in rassegna da nord a sud le pizzerie del Belpaese, scattando un’istantanea alquanto deprimente dell’incapacità tutta italiana di ‘fare le cose per bene’: nonostante fior fiore di associazioni di categoria, scuole di formazione e tanto di disciplinari per la preparazione della pizza, la realtà quotidiana delle pizzerie italiane (non tutte, è da chiarire, ma di certo abbastanza da sollevare un problema) sembra non rendere giustizia alla qualità di ingredienti e preparazione del tanto amato piatto italiano, al punto da sollevare il dubbio che possa essere addirittura nocivo alla salute.
I punti ‘caldi’ emersi dalla trasmissione Report sono molteplici: dalla farina bruciata e dal fumo nero della combustione con cui la pizza entra in contatto, dovuti alla scarsa pulizia dei forni a legna e potenzialmente cancerogeni, alla scarsa qualità degli ingredienti utilizzati (olio di semi invece che extravergine d’oliva – pomodoro concentrato di origine cinese e non San Marzano – mozzarella tedesca invece che fiordilatte campana); dalla lievitazione troppo rapida al cartone della pizza da asporto in carta riciclata vietato dalla legge fino al business delle pizze surgelate che, con Cameo leader di mercato che produce però in Germania, non brillano certo per qualità.
L’inchiesta ha chiaramente scatenato un polverone di commenti sui social network (su Twitter impazza l’hastag #reportpizza) e la reazione immediata delle associazioni di categoria e della politica. E mentre monta la polemica mediatica arriva però anche il parere scientifico dell’Istituto zooprofilattico sperimentale del Mezzogiorno che ha esaminato tre pizze e rassicura sul fatto che non siano emersi elementi di criticità e che “la quantità di benzoapirene rilevata è inferiore a 0,5 nanogrammi per grammo, a fronte dell’1,51 indicato ieri dalla trasmissione Report.”
Arriva proprio oggi anche la replica delle PMI, nella persona di Stefano Marotta – presidente UnionAlimentari-Confapi – Unione Nazionale della Piccola e Media Industria Alimentare, che invita con una lettera indirizzata a Iovene, a non scivolare “nell’allarmismo da strapazzo, privo di vere notizie, che dimentica la capacità fondamentale che contraddistingue il consumatore normalmente avveduto, la capacità di scelta”.
C’è anche chi ha cercato di proporre il proprio punto di vista per trarre dalla spinosa vicenda un beneficio reputazionale: Eataly, la catena che si fregia di essere il tempio dell’eccellenza alimentare italiana, a pochi giorni dalla puntata di Report esce sul Corriere della Sera con una pagina pubblicitaria dedicata alla ‘sua’ pizza con il payoff ‘La pizza è una cosa seria!’ che risponde, punto dopo punto, alle ‘pecche’ sollevate dall’inchiesta di Iovene.
Il punto, a nostro parere, al di fuori da polemiche e responsabilità, è che ancora una volta purtroppo ad essere messe in discussione sono la reputazione del nostro ‘Made in Italy’ e la capacità di tutelare le nostre eccellenze. Il dubbio in effetti è legittimo se si pensa, ad esempio, che proprio la pizza napoletana dopo anni di battaglie, dal 5 febbraio 2010 è ufficialmente riconosciuta come ‘Specialità Tradizionale Garantita’ dalla Comunità Europea (STG)…ma che da allora solo 15 pizzerie hanno richiesto e ottenuto il marchio.
Anche i mercati esteri, se da un lato riconoscono la reputazione italiana di eccellenza in alcuni campi tra cui l’alimentare (l’Italia è infatti prima in Europa per numero di prodotti Dop, Igp e Stg: su 1.241 prodotti a cui l’Unione Europea ha rilasciato tali riconoscimenti ben 266 sono italiani con il 21,4%), dall’altro sono i primi a puntare il dito sulle nostre ‘bucce di banana’. Ricordiamo l’attacco del New York Times che, in 15 vignette, accusava l’Italia di produrre olio extravergine d’oliva «italiano» utilizzando miscele provenienti da altri Paesi, come Spagna, Marocco e Tunisia. Un attacco che ha scatenato la replica indignata di associazioni agricole toscane, enti pubblici come la Camera di Commercio di Firenze e Regione Toscana, i consorzi di tutela degli oli extravergine Dop e Igp – tra cui il consorzio dell’olio Dop Chianti Classico che ha replicato con un cartoon che ‘racconta’ la virtuosa filiera della produzione Dop. Ma resta il fatto che la produzione ‘truffa’ esiste ed è una realtà che le stesse associazioni di categoria, Coldiretti in testa, registrano e denunciano perché ad essere messa in pericolo è, ancora una volta, la reputazione di un intero comparto: non è un caso che, a prescindere dalle vignette accusatrici, l’esportazione di olio nel mercato USA abbia registrato lo scorso anno una flessione del 13%.
Eppure sul fronte istituzionale la tutela del nostro Made in Italy sembra essere tra le priorità: il Ministro delle Politiche agricole e alimentari, Maurizio Martina, ha presentato poco meno di un mese fa i risultati dell’ attività relativa ai controlli sul settore agroalimentare nel periodo 2013-2014, anticipando anche una maggiore stretta in vista di Expo. Negli ultimi otto mesi sono state effettuate oltre 60mila verifiche (più di 116mila nel 2013), con oltre seimila sanzioni amministrative e un valore di prodotti sequestrati che ammonta a 32 milioni, mentre nel 2013 aveva raggiunto i 60 milioni. Il 20% delle operazioni ha interessato i prodotti di qualità, biologici e a marchio europeo e ha toccato in modo deciso anche il web attraverso un accordo siglato nei mesi scorsi dal ministero con eBay: un sistema nazionale di controllo che ha suscitato i commenti favorevoli della Commissione UE, che ha scritto che le verifiche italiane vanno oltre i requisiti fissati da Bruxelles.
Accanto ai controlli però, la politica di tutela del marchio ‘Made in Italy’ nel settore agroalimentare dovrebbe essere più incisiva anche sul fronte del business: negli ultimi tempi più di un marchio della tradizione agroalimentare italiana è passata in mani straniere, ultimo caso quello del Gruppo oleario Salov (marchi Sagra e Berio) passato pochi giorni fa alla cinese Bright Food, dopo l’acquisizione, la scorsa estate, della Deoleo (marchi Bertolli, Carapelli e Sasso) da parte di un fondo anglosassone. Eppure il settore oleario dovrebbe essere tra le punte di diamante della produzione Made in Italy e, come tale, tutelato anche dagli organismi istituzionali preposti, come il Fondo Strategico Italiano voluto dal Ministro Tremonti proprio per supportare le società italiane ‘di rilevante interesse nazionale in termini di strategicità del settore di operatività, di livelli occupazionali, di entità di fatturato ovvero di ricadute per il sistema economico-produttivo del Paese’.
Il tema è senza dubbio ‘caldo’ e a grande potenziale se anche un colosso privato come Google Italia è sceso in campo, insieme al ministero delle Politiche agricole e Unioncamere, per valorizzare il Made in Italy lanciando lo scorso gennaio una piattaforma (google.it/madeinitaly) realizzata dal Google Cultural Institute dedicata, per la prima volta, alle eccellenze produttive di un Paese con l’obiettivo di raccontarne storia, caratteristiche e legame con il territorio. Fa parte del progetto ‘’Made in Italy: eccellenze in digitale’ anche la realizzazione di un portale (www.eccellenzeindigitale.it) dedicato a supportare le pmi alla scoperta delle potenzialità del web e dell’economia digitale, attraverso suggerimenti e percorsi formativi. E’ un dato diffuso proprio dal colosso di Mountain View infatti, che nel 2013 le ricerche per parole chiave legate al Made in Italy su Google siano cresciute del 12% rispetto al 2012 ma che, allo stesso tempo, la nostra industria dell’eccellenza, fatta di filiere industriali e distretti, è ancora poco presente nella vetrina globale del web: solo il 34% delle Pmi ha un proprio sito internet e solo il 13% lo utilizza per fare e-commerce.
Allora, per concludere, forse la reputazione del nostro patrimonio di eccellenza dovrebbe stare un po’ più a cuore anche all’Italia del quotidiano, a quell’Italia che accoglie milioni di turisti e che nei locali delle città storiche (tornando al servizio di Report sulla pizza), vende pizza fatta ‘in casa’ che in realtà è fatta con basi surgelate provenienti da chissà dove; quell’Italia che ‘vende’ all’estero olio d’oliva ‘italiano’ mischiando miscele che italiane non sono; quell’Italia che sceglie la strada facile, del profitto a ogni costo, non curandosi del fatto che così facendo si sacrifica un profitto più alto e a lungo termine, che è quello dell’immagine di un Paese.