Un gruppo di amici sta giocando una partita di basket: contrasti vinti e persi, azioni dinamiche, canestri, esultanza, rabbia, sudore, risate – gli ingredienti ci sono tutti. Un solo dettaglio: le due squadre sono composte da giocatori in sedia a rotelle. Anche qui non ci sarebbe poi niente di particolare, se non per il fatto che a fine partita tutti i giocatori – tranne uno – si alzano dalle sedie: hanno giocato così perché era l’unico modo per condividere una passione insieme all’amico con disabilità. Vi ho raccontato l’ultimo spot per la birra Guinness – che potete anche vedere cliccando qui – realizzato recentemente da BBDO New York.
Per quei fortunati incroci che ogni tanto avvengono nella mente dei pubblicitari, questo spot riesce a esprimere un insieme di valori particolarmente ricco. Parla di amicizia in modo originale e toccante insieme, senza essere retorico e senza “speculare” sui problemi altrui. Come in altre pubblicità di birre, mette in scena un gruppo di amici, ma, per una volta, non i soliti “cazzeggiatori” semideficienti. E’ costruito con un senso del ritmo e del racconto assolutamente perfetto, con la sorpresa che arriva a ¾ della storia. Ed è assolutamente preciso anche il legame con il prodotto: “Guinness. Made of more” recita il claim. E sono davvero “Made of More” le persone protagoniste della storia, così come lo è la particolarissima birra irlandese nota in tutto il mondo.
“Made of More” è anche un’altra pubblicità realizzata da Leo Burnett Bruxelles nel lontano 2003, anno delle persone con disabilità. Anche qui, la sorpresa visiva ci arriva da una sedia a rotelle che compare solo verso la fine della storia. Sopra c’è seduto un uomo che, fino a quel momento, ha riversato sui colleghi di lavoro, seduti con lui a tavola, una serie di frasi insopportabili: se le donne non andassero a lavorare, si risolverebbe il problema della disoccupazione; anzi, magari ci vorrebbe una bella guerra, così il boom economico è assicurato; quella certa collega vuole sesso, lo dice con lo sguardo tutti i giorni ecc. “Quest’uomo è una persona disabile – dice verso la fine lo speaker fuori campo – Ma, soprattutto, quest’uomo è uno stronzo. I disabili sono uomini e donne come chiunque altro”.
In poche parole e con un set di immagini molto semplice, quasi didascalico, questo spot in un colpo solo rifiuta con nettezza ogni forma di pietismo e rivendica la dignità di ciascuno in quanto persona: tra l’altro, non solo di chi è disabile, ma anche delle donne, per esempio, che lo “stronzo” tratta senza il minimo rispetto. Ecco due esempi di grandissima “abilità comunicativa”, in cui la pubblicità sembra essere avanti anni luce rispetto a spezzoni della realtà, almeno di quella italiana.
Pochi giorni fa, sul portone di un asilo di suore a Casamicciola, isola di Ischia, è comparso un cartello che annunciava la chiusura della scuola per un giorno “PERCHE’ C’E’ LA GIORNATA PER I DISABILI. SONO MOLTO MALATI QUINDI I BAMBINI SI IMPRESSIONANO”. Qui la “disabilità comunicativa” concentra in poche righe una serie di handicap culturali: la disabilità è una malattia che genera “mostri”; la scuola non è il luogo primario di assimilazione e di scambio ma è un luogo di esclusione; l’educazione non serve a far aprire gli occhi ma a “proteggere” (ma da che cosa?) e a non far vedere. Quello che colpisce – almeno per quanto mi riguarda – nel cartello delle suore di Casamicciola, così come nella risposta del sindaco all’indignazione di tanti italiani (“E’ stato fatto in buona fede”) non è tanto il senso del testo (orribile), quanto l’automatismo culturale che lo ha prodotto, lo stesso che fa parlare un primo cittadino (rappresentante delle istituzioni) di “buona fede”. Se non ci si accorge della gravità di questi pensieri (e se li si sottovaluta) vuol dire che la cultura dei diritti deve fare ancora molta strada in questo paese. Una strada che l’informazione, le istituzioni (la scuola, prima di tutto) e le associazioni della società civile possono aiutarci a percorrere.
E una mano, qui, potrebbe darla anche una comunicazione intelligente, capace di impattare sulla reputazione della marca o del soggetto che la promuove, come quella delle due campagne create negli USA e in Belgio. Un solo dubbio finale: campagne come queste sarebbero mai state pensate, approvate e prodotte qui in Italia?
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